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La FED bloccata dai dati. Parte il canto della colomba.
05/09/2016

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La settimana che ha decretato la fine di agosto e l’ingresso in settembre ci ha consegnato mercati azionari sostanzialmente tranquilli, che hanno consolidato le loro posizioni su livelli generalmente superiori ai valori raggiunti alla vigilia del referendum sulla Brexit. Pare quindi compiuta l’opera di rimozione dello spavento che le due terribili giornate del 24 e 27 giugno avevano inferto ai mercati.

Alcuni indici, i più solidi, come il SP500 americano, il Nikkei giapponese, lo stesso Ftse100 inglese e il Dax tedesco hanno già superato da tempo questi livelli. Altri, più attardati dalle debolezze specifiche, hanno superato appena venerdì i valori pre-Brexit (Eurostoxx50, Ibex spagnolo), mentre il nostro Ftse-Mib, che in estate non è riuscito a scrollarsi di dosso il  cartellino di peggior mercato azionario al mondo, si trova ancora circa il 5% sotto i 17.966 punti che segnava il 23 giugno scorso.

Pare evidente perciò che la Brexit si è rivelata al momento nulla più che un pretesto speculativo per allargare le differenze tra i vari mercati. Ha fatto male a chi stava già peggio, mentre ha fatto bene a chi veniva già premiato in precedenza.

La settimana si è conclusa con la giornata campale di venerdì, che ha consentito ai mercati europei di mettere a segno un deciso spunto rialzista, grazie al brutto dato pervenuto sul mercato del lavoro USA. La creazione in agosto di soli 151.000 nuovi posti di lavoro, assai meno dei 175.000 attesi dagli analisti e solo poco più della metà di quelli creati a giugno e luglio, toglie alla riunione del FOMC del 21 settembre ogni possibilità di rialzo dei tassi, anche perché si aggiunge al dato del giorno precedente,  l’ISM manifatturiero, inaspettatamente e brutalmente sceso in territorio che segnala attese di rallentamento da parte dei manager industriali americani.

Se mettiamo a confronto le parole dei banchieri che partecipano al FOMC e della stessa Yellen con quel che i dati ci mostrano, si viene colti da un disagio profondo.

Dove sono i segnali di irrobustimento della crescita americana che permetterebbero di alzare i tassi entro fine anno? L’economia USA è cresciuta negli anni dal 2012 al 2015 ad un ritmo di circa il 2%, sempre aspettando e mai vedendo quell’accelerazione sopra il 3%, che nel decennio scorso era una caratteristica normale dei cicli di ripresa. Un’economia che quest’anno ha collezionato i primi due trimestri al ritmo dell’1% (peggio dell’Eurozona, non so se mi spiego) e che dovrebbe mostrare un miracoloso 3% sia nel 3° che nel 4° trimestre per riuscire solo ad eguagliare la media del 2% degli anni precedenti. Di fronte a questi difficili traguardi da raggiungere il motore dell’economia USA sembra però ingolfarsi, con le assunzioni che rallentano il passo e l’ottimismo dei manager industriali che pare tramontato.

La FED dà l’impressione di non avere assolutamente il controllo della situazione. Per anni ha aspettato ritmi di crescita che non si sono visti, sbagliando continuamente le previsioni per eccessivo ottimismo e dovendole sempre, invariabilmente, rivedere al ribasso. Aspettando la piena occupazione e la ripresa robusta prima di riportare le condizioni monetarie alla normalità, ha mantenuto  i tassi a zero e allagato di moneta il sistema, nella speranza che stampare dollari bastasse a far ripartire il motore con gli stessi giri di un tempo. Ora che il ciclo economico pare agli sgoccioli si trova all’angolo, come un pugile suonato. Vede che i ritmi di un tempo sono irraggiungibili e comincia ad accreditare teorie su una nuova normalità fatta di bassa crescita e bassi tassi (Yellen a Jackson Hole). Avendo sparato tutte le cartucce monetarie per favorire invano una crescita che non ha mai smesso di zoppicare, si trova ora costretta a vedere rosa nel futuro per forzare (troppo tardi?) una politica monetaria restrittiva, che le consenta di ricostituire un po’ di arsenale monetario utile a contrastare la prossima fase recessiva. Il rischio è che ripeta l’errore di Greenspan nel 2006 e Trichet nel 2007: quello di non capire che il ciclo economico è già alla frutta e che continuare ad alzare i tassi non fa che accelerare ed aggravare la recessione.

Ma questa volta l’errore potrebbe essere ancora più grave perché la manovra di rialzo è appena all’inizio e rischia di essere clamorosamente in ritardo, ottenendo il duplice flop di contribuire alla  recessione senza avere poi gli strumenti, che hanno avuto i predecessori di Yellen, per combatterla.

Ora è ancora presto per individuare questo scenario come già attuale. Forse qualche dato macro in più ci chiarirà meglio le idee. Ma non per cominciare a prenderlo in considerazione insieme ad altre ipotesi più ottimistiche.

I mercati negli ultimi anni hanno enormemente accorciato la loro vista, attratti sempre più da ottiche di breve e brevissimo periodo. Pertanto, vedendo solo entro i confini del proprio naso, festeggiano i brutti dati congiunturali americani perché allontanano di 3 mesi in rialzo dei tassi, che però, a questo punto, diventa quasi certo a dicembre, pena la perdita definitiva della credibilità della FED.

Pare quindi esserci ancora una breve finestra per estendere il movimento rialzista prima che si cominci a scontare il rialzo dei tassi USA, da cui dovrebbe partire una severa correzione.

I grafici sembrano pronti ad un’altra accelerazione, specialmente in Europa ed in Giappone, dove si attendono dalle rispettive Banche Centrali nuovi stimoli monetari, per spingere una ripresa che non si muove e ripetere gli stessi errori della FED.

Rialzi continui e prolungati sono possibili solo se si vedrà un’accelerazione della crescita globale, che oggi i dati non ci mostrano affatto, e che il Fondo Monetario Internazionale ancora una volta rivede al ribasso. Sarebbe quel miracolo che darebbe finalmente ragione alle banche centrali.

In assenza di miracoli possiamo attenderci dalle borse mondiali poco più che l’ennesimo canto del cigno.

Anzi, della colomba.

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