Ha vinto la scommessa chi ha puntato sul Jumbo. Devo dire che non mi aspettavo una FED così proattiva e diversa rispetto alla tradizione e al suo stesso carattere. Nella precedente svolta monetaria, a marzo 2022, quando alzò i tassi dal pavimento di 0,25% per portarli a 0,5% per prendere atto della necessità di combattere l’inflazione, si mosse in grave ritardo, poiché l’inflazione core, considerata per molti mesi “transitoria”, aveva raggiunto già il livello del 6,4% annuo.
Quella di agire in ritardo è stata una caratteristica costante della FED a partire dall’era Greenspan (1987). L’ultimo presidente che cercava di anticipare le svolte della congiuntura per dirigerle secondo il duplice mandato della Federal Reserve, cioè mantenere i prezzi sotto controllo e la piena occupazione, fregandosene delle aspettative dei mercati finanziari, fu Paul Volker.
Dopo di lui Greenspan (per 19 anni), Bernanke (8 anni), Jellen (4 anni) e Powell (in carica da oltre 6 anni) attuarono una politica di basso profilo, attendendo, prima di intervenire, che il ciclo economico segnalasse per bene le sue svolte, ed attenti più a sostenere i mercati (magari contribuendo a creare le bolle speculative) che a controllare la stabilità del ciclo economico.
Negli ultimi 35 anni abbiamo sempre visto interventi tardivi di rialzo dei tassi quando ci sono state le fiammate inflazionistiche o livelli di crescita economica surriscaldati, ed interventi molto potenti e prolungati quando si trattava di aiutare la ripresa dell’economia e delle borse dopo le recessioni. Ma anche i tagli dei tassi sono stati comunque quasi sempre in ritardo rispetto alla svolta del ciclo economico, a causa della scarsa disponibilità ad anticipare le mosse. Così i tagli non hanno quasi mai evitato le recessioni, perché gli effetti della politica monetaria arrivano all’economia con un ritardo compreso tra i 9 e i 15 mesi, un tempo troppo lungo se non si gioca con un po’ di anticipo.
Per questo motivo mi sarei aspettato che Powell & c. iniziassero gradualmente il percorso di accomodamento monetario anche stavolta, con un primo taglio da 0,25%. Un taglio che avrebbe potuto e forse dovuto essere attuato già nella primavera, quando l’inflazione aveva già dato ampie prove di convergenza verso l’obiettivo FED del 2%.
Ma la Fed non gioca d’anticipo. Ha atteso lo spavento di luglio sul mercato del lavoro per decidere di muoversi nella direzione del taglio dei tassi. E, siccome i mercati premono sempre per avere denaro gratis o al minor tasso possibile, i membri votanti della FED si sono fatti condizionare dalla aspettativa del mercato che vuole 4 tagli dei tassi entro fine anno e ben 10 entro settembre 2025. Nella proiezione mediana delle loro attese per i prossimi anni hanno incorporato pienamente le aspettative del mercato, andando a prevedere anch’essi 4 tagli a fine 2024 e 10 tagli a fine 2025.
Ma le riunioni a disposizione per fare i 4 tagli del 2024 ieri erano solo 3, perché ad ottobre non è previsto il FOMC, forse per non condizionare la campagna elettorale. Così hanno deciso di farne uno doppio già ieri, per poi farne seguire due da -0,25% in novembre e dicembre.
Mi ha stupito un po’ questo coraggio, dopo mesi di incerta cautela. Tanto più che, se è vero che il mercato del lavoro ha dato segni di affaticamento, i consumi, la produzione ed il PIL stanno ancora abbastanza bene e non mostrano sofferenza. La previsione della FED di Atlanta per il PIL USA del terzo trimestre, ancora in corso, che viene aggiornata ogni settimana, ora prevede una crescita annualizzata vicina al 3%.
Questa fretta poco consona al carattere FED ieri ha turbato persino i mercati, che pur speravano nel regalo del Jumbo-taglio. Quelli obbligazionari, che avevano recuperato molto nelle settimane precedenti, hanno quasi subito attuato prese di beneficio ed i rendimenti di mercato sono addirittura un po’ saliti. L’azionario ha attuato una fiammata rialzista che ha permesso a SP500 di migliorare fino a quota 5.689 il suo massimo storico. Ma è durata poco e, dopo un po’ di volatilità, sono scattate prese di beneficio che hanno riportato l’indice sui valori minimi del giorno prima.
Come se i mercati si chiedessero: che cosa sa la FED, che noi non sappiamo, per avere così fretta?
Vedremo oggi se il turbamento per il pensiero che la FED si sia mossa molto perché ha capito di essere ancora una volta in ritardo lascerà spazio alla fiducia che la FED questa volta abbia avuto il coraggio di muoversi prima che sia troppo tardi.
Dalla risposta che i mercati daranno a questo dilemma (coraggio o paura) dipenderà la loro direzione futura.
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