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TRA FED E MERCATI E' FINITA L'AMICIZIA?
27/01/2022 09:15

Ci sono giornate in cui tutto quel che succede sui mercati sino alle 20 di sera non conta nulla. Sono quelle in cui la FED decide di cambiare passo nella politica monetaria.

Ieri ne abbiamo vista una, che ci permette di leggere gli eventi di questo inizio del 2022 alla luce del rapporto tra mercati e FED.

Sappiamo, perché ne ho parlato infinite volte, che la politica monetaria accomodante avviata dal “modello FED” negli ultimi 14 anni, fatta di tassi a zero e moltiplicazione per 8 della quantità di moneta messa in circolazione con ripetute manovre di Quantitave Easing, ha favorito nei mercati una sorta di “tossicodipendenza” monetaria, esaltandone la sopravvalutazione e favorendo una duplice bolla speculativa, sui Bond e sulle azioni. Per giustificare l’allagamento monetario si è creata la teoria dell’inflazione buona, di cui, detto per inciso, l’attuale premier e candidato presidenziale italiano Mario Draghi è stato illustre divulgatore, quando era Presidente della BCE. La teoria sosteneva che le banche centrali dovevano stimolare l’inflazione per sostenere la crescita economica, la quale, senza aiuti monetari, sarebbe stata cronicamente bassa.

L’arrivo della pandemia a febbraio 2020 ha fornito ulteriore scusa per aprire ancor più il rubinetto monetario da parte di tutte le banche centrali del mondo, ma soprattutto della FED, a cui si è aggiunto un poderoso stimolo fiscale attraverso l’aumento smodato dei deficit di bilancio da parte di tutti i governi del mondo, ma soprattutto di quello USA, sia nella gestione Trump che in quella Biden.

La droga monetaria ha permesso ai mercati azionari di digerire in pochi mesi lo shock provocato dalla recessione indotta dai lockdown. Già nel 2020, ma soprattutto nel 2021 sono ripartiti al rialzo verso l’infinito, mentre quelli obbligazionari sono stati pilotati dagli acquisti delle banche centrali su rendimenti comunque bassi, sebbene l’inflazione, a partire dai primi mesi del 2021, avesse rialzato prepotentemente la testa.

In pochi mesi le famiglie hanno cominciato a sentire i morsi dei prezzi al consumo in aumento sui loro bilanci familiari, ed i risparmiatori non speculatori, quelli che investono i loro risparmi in tranquilli titoli di stato, hanno assaggiato rendimenti fortemente negativi, se misurati in termini di potere d’acquisto, cioè al netto dell’inflazione.

Banche centrali fedeli al loro mandato di garantire la stabilità monetaria avrebbero dovuto agire rapidamente per spegnere i focolai di inflazione. Ciò avrebbe richiesto la rapida cessazione del pompaggio di benzina monetaria, che consente l’espansione delle fiammate inflazionistiche, e la fine dei tassi a zero, per tornare a rendimenti reali un po’ meno penalizzanti.

Ma questo avrebbe comportato, inevitabilmente, lo sgonfiamento delle bolle speculative, con il rischio di crolli piuttosto dolorosi sui mercati finanziari.

Si è preferito continuare per mesi ad ignorare l’inflazione, per aiutare i mercati finanziari nel loro volo di Icaro. Per farlo si è presentata la nuova teoria dell’inflazione transitoria, dovuta a strozzature ed interruzioni della catena produttiva causate dai lockdown, che hanno ridotto l’offerta in alcuni settori e nella fornitura di materie prime. Problemi che si sarebbero dissolti entro pochi mesi e di cui non valeva la pena di curarsi.

Non è andata così. L’inflazione, nella sua ultima rilevazione a fine dicembre, è arrivata al 7% in USA e al 5% in Eurolandia e la FED ha dovuto prendere atto, in forte ritardo, di aver sbagliato la previsione e di dover fronteggiare un nemico che è risorto e che preoccupa l’opinione pubblica USA ed allarma il governo Biden.

Powell si trova ora alle prese con una situazione da anni ’80 del secolo scorso e con un duplice dilemma da risolvere:

  1. Tollerare l’inflazione per sostenere la crescita economica, oppure combattere l’inflazione causando un rallentamento congiunturale o magari una recessione?
  2. Perseguire la stabilità monetaria, a costo di provocare lo scoppio delle bolle speculative sui mercati, oppure mantenere ancora rendimenti reali fortemente negativi per consentire ai mercati di continuare il loro volo verso l’infinito?

A dicembre (ma i mercati se ne sono accorti ai primi di gennaio, quando hanno letto i verbali delle discussioni tra i membri del FOMC nella riunione di metà dicembre), la FED ha deciso che l’inflazione non poteva più essere trattata come transitoria e che occorreva accelerare la svolta in senso restrittivo della politica monetaria.

I mercati sono stati colti di sorpresa ed hanno preso questa decisione come un tradimento da parte del loro “compagno di merende”.

Lo shock si è manifestato con una correzione piuttosto brusca, che ha portato l’indice SP500 a perdere più del -12% dal suo massimo storico, prima di rimbalzare lunedì scorso. Il Nasdaq100 ha perso ancor di più, -18%.

Speravano, i mercati, che questo scivolone destasse la pietà della FED, e che magari i propositi restrittivi venissero addolciti nella riunione di ieri. Al punto che la seduta di ieri ha mostrato un rimbalzo intorno al +2% per gli indici di Eurolandia e l’americano SP500 è arrivato all’appuntamento FED con un provvisorio +1,5% di rialzo.

Il comunicato ufficiale delle ore 20 non ha aiutato granché a capire, poiché, oltre a ripetere le cose che già si sapevano, è rimasto carente di indicazioni precise sui tempi e sull’entità della stretta, limitandosi a dire che “sarà presto appropriato” alzare i tassi ufficiali, che intanto restano fermi poco sopra lo 0%.

SP500, un po’ frastornato, ha oscillato su e giù per mezz’ora in attesa della Conferenza Stampa di Powell, sperando che a voce il presidente FED si sbottonasse un po’ di più, ed anche per valutare il linguaggio del corpo, insieme alle parole.

Ebbene, Powell è stato drammaticamente più esplicito, dichiarando che il primo rialzo dovrebbe avvenire a marzo e che c’è parecchio spazio per farne altri, non escludendo che se ne possa fare uno ad ogni futura riunione del 2022. Gli operatori hanno dato un’occhiata al calendario delle future riunioni della FED, scoprendo che quest’anno da marzo in poi ce ne saranno ben 7. Ora, è difficile che si facciano 7 rialzi, ma a questo punto la temuta ipotesi di 4 rialzi, se sembrava fino ad un attimo prima pessimistica, è diventata di colpo piuttosto realistica. E, per finire, pur senza fornire tempistiche e quantità della riduzione dei titoli in portafoglio (il cosiddetto Tightening), ha confermato che si andrà più veloci che in passato.

Si tratta di una doccia gelida sulle speranze dei mercati, dei quali Powell ha persino snobbato la recente sofferenza, mostrando che la sua preoccupazione ora è un’altra.

Se non è la fine di un’amicizia, poco ci manca.

La delusione ha fatto evaporare tutto il rialzo e la seduta è terminata a -0,15% per SP500, a +0,17% per Nasdaq100 e addirittura a -1,61% per l’indice Russell2000 delle small cap.

Perciò i mercati europei oggi dovranno inseguire il ribasso di Wall Street e la situazione torna ad apparire estremamente precaria.

Prende quota l’ipotesi che ho ventilato nei giorni scorsi, cioè che la scivolata di lunedì avesse creato un minimo provvisorio, ma non definitivo, a questa correzione. Dato che il rimbalzo sembra aver completato l’onda B di questa correzione, ora occorre vedere dove si fermerà l’onda C ribassista, partita dalle parole di Powell di ieri sera. La possibilità che SP500 scenda verso quota 4.000, sotto il minimo di 4.223 di lunedì scorso, si fa sempre più concreta.

 

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