La settimana molto temuta, a causa del dato sull’inflazione di novembre, ha visto quasi tutti gli indici azionari principali chiudere su valori più alti di quelli registrati il venerdì precedente, mentre quelli di Wall Street hanno addirittura concluso in gloria.
Facendo una carrellata di dettaglio sulle performance settimanali, osserviamo infatti che a salire di meno sono stati i principali indici asiatici, con rialzi comunque non disprezzabili, intorno al punto e mezzo percentuale. Meglio è andata l’Europa con un rialzo mediamente del +2,92%, quello espresso dall’indice sintetico Eurostoxx50. Un po’ meglio hanno fatto gli indici di Francia ed Italia, mentre con percentuale asiatica ha chiuso la settimana l’indice spagnolo. I numeri americani sono stati invece da spumante, con SP500 a +3,82%, il Nasdaq100 a +3,95% e il vecchio Dow Jones oltre il +4%. In USA ha deluso solo l’indice delle small cap Russell 2000, con un segno settimanale solo leggermente positivo ed un parziale mensile molto negativo (-8%), mentre a livello globale solo la Russia ha riportato un segno negativo (-3,3%).
Con questi numeri sembra perciò che lo scoglio dell’inflazione sia superato, anche se un’analisi un po’ più approfondita rivela che il comportamento dei vari indici non è stato affatto uniforme.
Quelli asiatici sono tornati un po’ nel mirino degli acquirenti grazie alle ottime capacità di controllo delle ondate di Covid da parte delle loro organizzazioni sanitarie. Oltre a ciò, i mercati sembrano vedere la crisi immobiliare cinese come un bicchiere mezzo pieno. E’ vero che la situazione precaria di Evergrande è peggiorata, poiché non ha pagato i debiti con l’estero (ma viene aiutata dal governo ad onorare quelli con i cinesi), e questo ha causato la dichiarazione di default selettivo da parte di Fitch. Però i mercati stanno apprezzando i copiosi sostegni monetari all’economia cinese ed i molti aiuti che il governo sta dando al settore immobiliare ed ai risparmiatori dubbiosi, per evitare il peggioramento della situazione. L’indice cinese di Shanghai ha così riavvicinato i massimi dell’anno, che sono anche il bordo superiore di un ampio trading range compreso tra 3.731 e 3.313. Superare 3.731 non sembra facile, però è un dato di fatto che mentre a novembre l’occidente correggeva, la Cina ha costruito il recupero.
L’Europa ha avuto una buona settimana grazie alle prime due sedute, che hanno effettuato uno strappo rialzista veramente notevole (circa +5,5% il balzo cumulato delle due sedute di lunedì e martedì scorso da Eurostoxx50), ma da mercoledì è solo arretrata, anche se le ultime tre sedute della settimana hanno solo ridimensionato i guadagni. È segno che, come accade molto spesso, l’Europa riesce a drammatizzare i momenti negativi e le incertezze assai più di quanto non facciano gli indici americani e questo comportamento motiva la costante sottoperformance di lungo periodo dell’indice Eurostoxx50 rispetto all’americano SP500.
In USA invece gli investitori paiono inossidabili anche alle brutte notizie.
Con una situazione sanitaria assai precaria, e con le vaccinazioni che stentano, il virus sembra non essere un problema, come non lo è stata neppure la comunicazione venerdì di un tasso di inflazione a novembre che ha raggiunto valori che non si vedevano da oltre 30 anni. L’indice dei Prezzi al Consumo complessivo è salito in USA dal +6,2% di ottobre fino al +6,8% di novembre, mentre quello core, che esclude dal paniere i prezzi di energia e alimentari freschi, è passato dal +4,6% di ottobre al +4,9% di novembre. I dati annunciati hanno confermato le attese degli analisti, e forse per questo i mercati azionari USA, anziché preoccuparsi, hanno digerito tutto con un solo piccolo ruttino discendente nella prima parte della loro seduta, che è servito a spaventare i mercati europei ed a farli chiudere in negativo per la terza giornata consecutiva. L’ultima parte della seduta USA ha visto invece la riscossa dei compratori, che ha portato l’indice SP500 a chiudere sui massimi settimanali a quota 4.712, a soli 31 punti dal massimo storico.
Il ragionamento degli investitori si basa sulla constatazione che non ci sono state sorprese più negative di quel che gli analisti, ed anche il vecchio Biden, avevano previsto. Ma guarda al futuro, constatando che gran parte del merito del balzo dei prezzi al consumo di novembre è dovuto all’arrivo degli effetti del forte rialzo delle quotazioni dei prodotti petroliferi in ottobre. Allora il mercato, visto che in novembre i prezzi dell’energia sono arretrati parecchio, sta già cominciando a scontare che per dicembre l’inflazione dovrebbe arrestarsi o magari fare anche un passo indietro. Soprattutto confida che il medesimo ragionamento venga fatto in casa FED, durante la riunione del FOMC, che si terrà mercoledì prossimo. Spera che la FED non abbia fretta di accelerare il tapering o almeno non lo acceleri troppo, mantenendo così il più a lungo possibile l’attuale politica monetaria estremamente accomodante.
A sostegno di questa interpretazione possiamo anche osservare i rendimenti sul Treasury Note decennale, che dopo il dato sull’inflazione hanno cominciato a scendere, per attestarsi a fine seduta a 1,48%, evidenziando un rendimento reale drammaticamente negativo di oltre 5 punti percentuali.
Tutto risolto, allora? La riunione FED non spaventa più? A giudicare dalla reazione a caldo dei mercati sembrerebbe proprio così.
Prendiamoci ancora la seduta odierna per cercare la conferma a freddo, dopo le riflessioni del fine settimana. Ma se SP500 avrà la forza di portarsi massimo storico, sarà il segno che l’incertezza per l’inflazione è stata dribblata dalla voglia di rally di Natale.
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