La settimana centrale di ottobre ha visto un po’ più di volatilità della settimana precedente, ma in sostanza i prezzi dell’azionario, fotografati il venerdì sera, non si sono a mossi dalla fotografia precedente. Un piccolo rialzo per gli indici americani, sballottati dalle notizie elettorali, ha consentito di segnare la terza settimana di recupero dopo le 4 precedenti di calo.
Un piccolo ribasso hanno invece registrato le borse europee, che venerdì hanno quasi raddrizzato una settimana che solo il giorno prima sembrava cupamente indirizzata verso i minimi di settembre.
Decisamente migliore è il risultato delle borse cinesi (Shanghai +1,96% settimanale), ma qui inganna il fatto che la piazza orientale è rimasta chiusa per le prime 6 sedute di ottobre ed si è allineata in due sole giornate al rimbalzo che il resto del mondo aveva generato ad inizio mese, per poi adagiarsi fino a fine settimana.
Insomma: una settimana che sarà presto dimenticata.
Ne restano due da compiere prima della resa dei conti elettorale americana. Negli States, come si conviene, la febbre politica sale e il duello comincia a far vedere colpi bassi e spese folli per convincere gli indecisi di una manciata di stati in bilico, che saranno, come sempre, l’ago della bilancia elettorale. Nessuno pare abbia nulla da obiettare a questo sistema elettorale, che a me pare piuttosto stravagante, poiché assegna un’importanza enorme al voto oscillante e d’opinione degli indecisi dell’ultimo momento negli stati dove le differenze di consenso tra i due candidati sono minime. Per cui assistiamo alla concentrazione dei comizi in poche città chiave, al bombardamento mirato di pubblicità e di fake news sui telefonini di chi risiede negli stati incerti e all’assoluta latitanza dei candidati in gran parte del territorio americano, dove la stabile polarizzazione del voto rende già sicuro l’esito della battaglia. E, ultima, ma sostanziale distorsione, potrebbe capitare nuovamente quel che è successo già più volte, cioè che il candidato che prende più voti complessivi, risulti poi perdente nel numero dei grandi elettori ottenuti, che sanciranno la nomina del Presidente. Nel 2016 Trump, pur ottenendo quasi 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton, strappò 306 grandi elettori contro 227. Sarò forse l’unico, ma a me un sistema elettorale dove la minoranza vince non pare un grande esempio di democrazia.
Sta di fatto che agli americani deve piacere, se continuano ad usarlo. Soprattutto piace a Mark Zuckerberg, che da inizio ottobre incassa ogni giorno un milione e mezzo di dollari per la pubblicità che i due candidati (Trump circa 800.000 $ e Biden oltre 600.000) vomitano sulle pagine Facebook degli abitanti di quel pochi stati.
Sarà comunque questo strano meccanismo a decretare il vincitore la notte del 3 novembre (per noi europei sarà già la mattina del 4). Teoricamente.
O meglio, se vincerà Trump oppure se Biden dovesse avere un successo ampio ed indiscutibile. Nel casi di successo risicato di Biden, invece è quasi certo che Trump contesterà il voto e bloccherà per settimane l’ufficializzazione dei risultati con ricorsi, richieste di riconteggi dei voti e chissà quale altra diavoleria pur di non fare trasloco dalla Casa Bianca. Questa eventualità rischia di paralizzare l’attività amministrativa in un paese in cui il Coronavirus pare tutt’altro che paralizzato.
Ma non è solo questo che mantiene in ansia i mercati. Anche la possibilità che i due rami del Congresso (la Camera dei Rappresentanti ed il Senato) dopo il voto abbiano maggioranze diverse.
Il 3 novembre infatti non si vota solo per il Presidente, ma si rinnova anche per intero la Camera dei Rappresentanti ed un terzo dei senatori. Non ci sono dubbi che i democratici riescano a vincere alla Camera. Ma al Senato la partita è molto aperta ed i repubblicani potrebbero mantenere la maggioranza, anche perché il meccanismo elettorale assegna due senatori a ciascuno dei 50 stati dell’Unione, penalizzando così gli stati grandi e popolosi, dove è preponderante il consenso per i democratici. Favorisce i piccoli stati rurali, dove invece sono quasi sempre i repubblicani vincere.
Un congresso diviso non è una cosa eccezionale, anzi, è capitato più volte. Ma questa volta il paese è spaccato e radicalizzato più che mai. Ha dato l’impressione a tratti di essere sull’orlo di una guerra civile. Senza il consenso dell’intero Congresso non possono essere approvati gli aiuti all’economia per evitare i fallimenti di migliaia di imprese e di milioni di americani senza lavoro per colpa del virus.
Questi crucci fermano la mano degli investitori, anche se non manca la voglia di speculare sull’arrivo a breve del vaccino e sulle trimestrali delle Over the Top del Nasdaq, che col virus aumentano i loro utili.
Se l’America riflette l’Europa ne ha ancor più motivo, dato che il contagio spaventa e i governi stanno varando in ordine sparso, come sempre, misure di restrizione che certo non favoriranno quella ripresa che si sta già ammosciando.
Non pare una settimana da affrontare con coltello tra i denti, ma piuttosto con una solida armatura.
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