Nei commenti degli ultimi giorni ho cercato di motivare, per quanto mi è possibile, lo strano comportamento dei mercati, che hanno abbandonato del tutto le regole di una volta, che legavano la performance azionaria a quella dell’economia reale e l’andamento delle obbligazioni all’ammontare del rischio di credito che grava sull’investitore.
Oggi il legame dei mercati finanziari è con le banche centrali, che con le loro politiche monetarie ne determinano la direzione a prescindere dall’economia reale e dal rischio.
Ma questo legame è a filo doppio, poiché non sono solo i mercati a dipendere dai banchieri centrali, ma gli stessi banchieri sono per certi versi “ostaggio” dei mercati, per colpa del peso che ha ormai raggiunto la sovrastruttura finanziaria planetaria, ben rappresentato dall’ampiezza del debito globale a fine 2018 (il 320% del PIL mondiale, cioè 247.000 miliardi di dollari, il 39% più alto di quel che era nel 2008, alla vigilia della grande crisi finanziaria). I Presidenti delle maggiori banche centrali del mondo sanno, e nell’ultimo trimestre del 2018 ne abbiamo avuto una evidente dimostrazione, che se il loro comportamento non incontra le aspettative dei mercati, possono avvenire crolli rapidi e significativi.
Non solo. Da qualche tempo si fa sempre più assordante nelle loro orecchie anche il condizionamento dei politici, che hanno rotto il tabù dell’indipendenza dei banchieri centrali ed entrano a gamba tesa con richieste esplicite di taglio dei tassi. Ne sono un fulgido esempio le continue critiche e minacce, al limite dell’insulto personale, di Trump verso Powell ed il licenziamento del Presidente della banca centrale turca da parte di Erdogan, proprio per un mancato taglio dei tassi.
Tutto ciò spiega forse l’attesa ossessiva che i mercati hanno in questi giorni, che precedono la riunione del FOMC di fine luglio, quella che dovrebbe varare il tanto atteso e preteso taglio dei tassi, per ogni stormir di foglia che possa incidere sulla decisione della FED.
Ieri le borse USA si sono messe in standby e praticamente non si sono mosse. Quelle europee, che la scorsa settimana erano salite più di Wall Street, hanno continuato la correzione che le ha riportate in linea con l’incertezza americana, imitando quel che hanno fatto anche i mercati asiatici.
Tutto questo è successo perché oggi e domani è previsto lo show comunicativo di Powell, che preparerà i mercati alla decisione del 31 luglio.
E’ infatti prevista la duplice audizione al Congresso USA: oggi al Senato e domani alla Camera.
Rispondendo alle domande dei politici americani, i mercati sperano che Powell chiarisca loro le idee, dopo essersi portati un po’ avanti, forse troppo, nelle scorse settimane. La previsione che i listini incorporavano dava per scontato un taglio di almeno un quarto di punto e una significativa percentuale (quasi il 50%) di probabilità che il taglio potesse essere addirittura più aggressivo, da mezzo punto.
Il dato positivo arrivato venerdì scorso sul mercato del lavoro, che è un indicatore molto seguito dalla FED, ha costretto questa settimana i mercati a correggere un po’ le aspettative più generose, che ormai non contemplano più la probabilità che il taglio sia aggressivo. Perciò anche i prezzi sull’azionario sono discesi un po’ dai record della scorsa settimana ed hanno dovuto mettere da parte l’intenzione di raggiungere fin da subito le importanti cifre tonde che attendono i tre principali indici USA (3.000 punti per il più onnicomprensivo SP500, 27.000 per il vecchio Dow Jones e 8.000 per il tecnologico Nasdaq100). Anche i Treasury bond hanno corretto un po’ gli eccessi euforici ed il rendimento sul decennale è rimbalzato dai minimi inferiori al 1,95% segnati il 3 luglio fino al 2,07% di ieri.
Tutto ciò non significa che il taglio dei tassi non avverrà. Anzi. Le probabilità che Powell tagli di 0,25% il tasso ufficiale sui Fed Fund restano intorno al 90%. Sarei molto sorpreso se non lo facesse.
Quel che innervosisce i mercati è però la prospettiva che si presenta oltre la prossima riunione FED.
Il taglio di luglio sarà l’inizio di un processo che ne preveda altri 2 nel 2019 ed almeno un terzo il prossimo anno, come i mercati una settimana fa scontavano e pretendevano? Oppure si tratterà del classico contentino per tenere buoni mercati troppo nervosi e per il futuro si tornerà ad osservare quel che arriva dall’economia reale prima di procedere oltre?
Detto in altri termini, e con l’uso di qualche inglesismo di troppo: la politica della FED si manterrà “data dependent”, come hanno sempre ribadito i comunicati ufficiali fin qui presentati, oppure accetterà di diventare più esplicitamente “market dependent”, il che significa anche “Trump dependent”?
Sono domande toste, a cui Powell non potrà mai dare risposte secche e chiare, perché la FED non potrà mai ammettere di essere ostaggio del potere politico o del potere finanziario dei mercati.
Sarà perciò il linguaggio non verbale a comunicarci che cosa vorrà essere la FED in futuro.
E non è detto che Powell ci riesca. Non sarebbe la prima volta che le audizioni generano incomprensioni comunicative tra la FED ed i mercati. La Yellen ne fu vittima più una volta.
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