L’inerzia rialzista acquisita dai mercati, dopo lo show dei due più importanti banchieri centrali del globo, ha prodotto già ieri il risultato che forse solo venti giorni fa nessuno azzardava nemmeno ad immaginare, cioè l’aggiornamento del record assoluto da parte del principe degli indici azionari del pianeta, l’americano SP500. Forse non è esatto che dire che nessuno se lo immaginava. Gli ottimisti ad oltranza non mancano mai. Inoltre sui mercati regna da sempre la convinzione di un destino immutabile degli indici azionari a salire verso il cielo. Ma sfido chiunque a dichiarare onestamente se a fine maggio si sarebbe aspettato il ritorno ai massimi di Wall Street entro il 20 giugno.
Eppure così è stato e SP500 ieri ha compiuto l’opera con un enorme balzo iniziale, portandosi a contatto con i precedenti massimi di 2.954 punti, per superarli nelle battute iniziali e dedicare le successive due ore a retrocedere fino a chiudere il gap aperto rispetto alla seduta precedente. In questo modo ha costretto gli indici europei, che nel corso della mattinata si erano spinti al rialzo di circa un punto percentuale rispetto alla seduta precedente (poco meno Eurostoxx50, poco più il nostro Ftse-Mib), ad un rialzo finale meno euforico (Eurostoxx50 +0,39%, Ftse-Mib +0,66%). Chiuso il gap, la seconda parte della seduta americana è stata dedicata al ritorno sui massimi, toccando così il livello più alto mai raggiunto dall’indice americano a quota 2.958, e chiudendo poi la seduta proprio appoggiandosi sul precedente record a 2.854. Missione compiuta. Trump sarà contento.
Ora, però, se vogliamo andare oltre i festeggiamenti, cominciamo a fare qualche osservazione che cerchi di mettere nella fotografia celebrativa anche quel che stride un po’.
Innanzitutto notiamo che il record, per ora, è stato realizzato da SP500 e non ancora dal DowJones, né, tantomeno, dal tecnologico Nasdaq100. Al vecchio Dow manca un’inezia, mentre al Nasdaq100 manca ancora più di un punto percentuale per fare il record.
Seconda questione, molto più importante. Il record realizzato ieri è molto diverso dai precedenti. Sia da quello di maggio, sia soprattutto da quello ancora precedente del settembre 2018. Nei due precedenti casi l’euforia sull’azionario si accompagnava, lo scorso anno, a tassi di interesse in salita, PIL in robusta crescita e prospettive rosee per il 2019, mentre a fine aprile fu la percezione che sarebbe bastato fermare il rialzo dei tassi per garantire una crescita ancora interessante all’economia USA, dato che la guerra commerciale sembrava in fase di esaurimento e la curva dei rendimenti si era appiattita ma non aveva ancora dato quel chiaro segnale di inversione che solitamente anticipa una recessione.
Questa volta invece la curva è chiaramente invertita, i rendimenti sul Treasury decennale USA sono addirittura caduti sotto il livello psicologico del 2%, la recessione futura è una percezione ben più forte che in aprile, mentre la fine della guerra commerciale USA-Cina è appesa all’incontro della disperazione che a fine mese Trump e Xi avranno ad Osaka a margine del G20, sul quale solo la propaganda trumpiana è ciecamente fiduciosa, come lo era ad aprile. Intanto le banche centrali hanno rotto gli indugi e la pazienza attendista si è trasformata in annuncio di imminenti manovre accomodanti. Forse cominciano anch’esse ad essere decisamente più preoccupate di qualche mese fa.
Francamente, se cerchiamo una logica operativa che faccia i conti col buon senso, a me pare questa volta molto più rischioso essere pienamente investito sull’azionario che le volte precedenti.
Perché se i mercati obbligazionari hanno ragione a prevedere la recessione, è evidente che il calo dei tassi delle banche centrali non sarà un episodio isolato in grado di rimettere a posto le cose in un lampo. Sarà invece l’inizio di un percorso di ridimensionamento dei rendimenti che durerà per un bel po’ e che dovrà risolvere un problema, la recessione in USA, che da 10 anni è scomparso dai radar degli osservatori e dei mercati. Peraltro dovrà farlo partendo da una montagna di liquidità già immessa nel sistema, che legherà le mani alle banche centrali se dovranno aumentare la loro aggressività contro la recessione. In queste condizioni, simili nella tempistica degli eventi (ma peggiori quanto a gravità) a quelle che abbiamo visto nel 2000 e nel 2007, non è così sbagliato andare a vedere che cosa è successo allora. Anche allora la narrazione voleva una FED in grado di controllare la situazione e mettere a posto le cose con un ritocco salutare verso il basso ai tassi ufficiali, confidando che la fase “Goldilocks” (riccioli d’oro, cioè il migliore dei mondi possibile) sarebbe continuata senza problemi.
Invece arrivarono due delle peggiori crisi della storia dei mercati finanziari e, soprattutto nel 2008, una recessione tra le peggiori della storia, dopo quella del ’29.
C’è la possibilità che invece l’operazione di chirurgia estetica all’economia USA che effettuerà la clinica della FED riesca ad evitare la recessione?
Sì. Tutto è possibile. Ma questo significherebbe che oggi i mercati obbligazionari stanno prendendo una cantonata colossale, e che gli investitori sull’obbligazionario, che oggi hanno messo quasi 13.000 miliardi in titoli a rendimento negativo, pur di proteggere i soldi dal pericolo di crolli sull’azionario, verranno beffati da cocenti perdite in conto capitale nei prossimi anni, in cui le quotazioni scenderanno perché i rendimenti torneranno a salire.
Ancora una volta sta succedendo quel che mi è già capitato di vedere alla vigilia delle due grandi ecatombi azionarie del millennio che stiamo vivendo: da un lato il mercato obbligazionario che sconta la recessione, dall’altro il mercato azionario che confida nel potere taumaturgico delle banche centrali e punta verso un cielo senza nuvole.
Non possono avere ragione entrambi. Qualcuno piangerà. Nelle due precedenti circostanze hanno pianto i mercati azionari. Questa volta sarà diverso?
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