La prima settimana di giugno ha portato sui trend dei mercati comportamenti assai divergenti rispetto a quanto si è visto in maggio.
Se da un lato l’obbligazionario ha confermato, anzi, addirittura accelerato, le tendenze di maggio, i mercati azionari (con la importante eccezione cinese) hanno invece tentato l’inversione rialzista della loro marcia.
A sparigliare i ranghi sono state le due più importanti banche centrali del mondo, ed in particolare la FED americana.
Il comportamento di FED e BCE sembra sia giunto ad un punto di svolta rispetto alle politiche fin qui seguite. Sia Powell che Draghi, nei loro interventi pubblici tenuti nel corso della settimana, hanno manifestato ampia disponibilità a modificare in senso espansivo le loro attuali politiche monetarie. Il motivo è la presa d’atto che l’economia europea ed anche quella americana sembrano avviate verso un severo rallentamento, manifestato da indicatori macroeconomici sempre più deboli, a causa dell’inasprirsi delle tensioni commerciali ed anche politiche tra USA e Cina. Anzi, come ha mostrato il vertice di venerdì scorso tra Putin e Xi, che stranamente ha avuto poco risalto sui media occidentali, occupati a raccontare le gaffe di Trump con la Regina Elisabetta, la seconda e la terza superpotenza mondiale hanno cementato la loro amicizia con una trentina di accordi commerciali in prospettiva anti-americana, preparandosi ad un lungo confronto con gli USA per il dominio futuro sul mondo.
Sebbene questa prospettiva esca dai radar di breve termine, che sono quelli che intercettano ed interpretano i fatti per trasformarli in tendenze di mercato, direi che contribuiscono a raffreddare ulteriormente le speranze di una rapida rappacificazione che termini la guerra dei dazi e degli sgarbi commerciali.
Powell sembra ormai rassegnato a proporre un taglio dei tassi, dopo aver interrotto nei mesi scorsi sia il piano di “normalizzazione” che quello di progressiva riduzione dei bond presenti nel bilancio della FED, acquistati copiosamente nelle tre precedenti manovre di Quantitative Easing dal 2008 al 2014.
Il taglio dei tassi “preventivo” manderà ai mercati il segnale che la festa della crescita è finita, dopo ben 10 anni di espansione congiunturale, il più lungo ciclo di crescita mai realizzato in USA. Per la verità i mercati obbligazionari non hanno certo atteso Powell per rendersene conto. Anzi, hanno anticipato questa presa di coscienza e, per essere più precisi, hanno suggerito loro stessi a Powell di togliersi il paraocchi e guardare la realtà in faccia fin dal novembre dello scorso anno. Lo hanno fatto cominciando a far salire le quotazioni e, pertanto, scendere i rendimenti in modo via via più convinto. Il Treasury Bond decennale rendeva ai primi di novembre il 3,25%. Allora si pensava che la normalizzazione avrebbe ancora comportato uno o due rialzi dei tassi, mentre l’economia americana pareva immarcescibile. Ma da quel massimo relativo una prima disillusione invernale ha provocato la discesa a fine anno in area 2,60% e, dopo due mesi di stabilizzazione, una nuova scivolata al 2,35% in marzo. A quel punto la continua manipolazione comunicativa attuata da Trump per creare l’attesa dell’accordo di pace sui dazi ha favorito un ritorno prima di Pasqua in area 2,60%, ma l’amara constatazione che nessun accordo è all’orizzonte, e che piuttosto la guerra commerciale riprendeva vigore, diventando anche geopolitica, ha favorito un nuovo crollo dei rendimenti fino al 2,05% toccato venerdì scorso, dopo il dato macroeconomico sul mercato del lavoro in maggio, che ha mostrato un deciso rallentamento nelle assunzioni in USA ed una stasi negli aumenti dei compensi ai lavoratori.
A questo punto i futures sui tassi di interesse scontano con una probabilità elevatissima, intorno all’80%, un primo taglio dei tassi entro luglio, ed altri due entro fine anno, scommettendo così su un rallentamento marcato dell’attività economica americana. O, meglio, che la FED arriverà a convincersi di questa eventualità ed agirà con molto vigore. Si stanno addirittura leggendo previsioni di ripresa del Quantitative Easing per importi cospicui (tra 1000 e 2000 miliardi di dollari).
A fronte di questo scenario economico in via di progressivo deterioramento, come reagiscono i mercati azionari? Dopo il forte calo “preventivo” dell’ultimo trimestre 2018, SP500, l’indice più rappresentativo dell’azionario USA, ha conosciuto un poderoso rimbalzo nei primi 4 mesi, che ha tornando ai massimi storici. Una risalita così repentina ha richiesto una correzione in maggio, che ha riportato l’indice sui valori di inizio marzo, stornando circa il 38% del movimento rialzista del 2019. Finito maggio, è ripreso il rialzo con il fortissimo rimbalzo della scorsa settimana, che, con lunedì che ha esaurito la spinta dei venditori, e le 4 successive sedute tutte al rialzo, ha consentito a SP500 di risalire del 4,4% settimanale e di riportare il risultato parziale del 2019 in rialzo di quasi il 15%. Ovviamente la baldanza americana ha trascinato al recupero anche gli indici Europei, anche se con meno enfasi (Eurostoxx50 +3% settimanale, poco più del nostro Ftse-Mib a +2,8%). In Asia l’entusiasmo è stato contenuto (Nikkei giapponese a +1,4%) o assente, dato che gli indici cinesi sono andati decisamente per conto proprio. Già avevano anticipato la correzione in aprile, poi in maggio hanno attuato un movimento laterale, che è sembrato voler proseguire anche in giugno. Anzi, la scorsa settimana è andata a testare il bordo inferiore del trading range laterale ed ha dimostrato una certa preoccupazione da parte degli investitori cinesi per l’evoluzione della guerra commerciale.
Peraltro questa assenza di correlazione tra Cina e USA ha una sua ragione di esistere in tempo di guerra, dato che i contendenti cercano di danneggiarsi reciprocamente.
Quel che desta invece una certa perplessità è il ritorno all’ottimismo da parte degli indici americani, fin troppo ansiosi di riprendere la via del rialzo ed ormai ben più vicini ai massimi storici di fine aprile che ai minimi di fine maggio.
L’entusiasmo non ha basi logiche molto fondate. Infatti, se i mercati obbligazionari hanno ragione, il forte rallentamento produttivo della seconda parte dell’anno dovrebbe danneggiare l’attività delle imprese USA e premere sugli utili, portando un ridimensionamento deciso delle valutazioni aziendali. Tutto ciò è incompatibile con il ritorno ai massimi storici.
Detto in altri termini, l’entusiasmo dei mercati azionari sta scontando l’ipotesi che il rallentamento non avrà impatto sulle valutazioni poiché sarà assai meno marcato di quanto non ci induca a supporre l’andamento dei mercati obbligazionari. Ipotizzano invece che la nuova distribuzione di “panem et circenses” monetari da parte della FED basterà a ripristinare un ritmo di crescita sostenuto ed allontanare i rischi di recessione. O, perlomeno, che l’abbassamento dei rendimenti riattiverà la voglia di rischio degli investitori e creerà una nuova bolla speculativa.
A me pare evidente che, se confrontiamo il comportamento del comparto obbligazionario con quello del mercato azionario, ci troviamo di fronte al classico dilemma che ciclicamente ci viene proposto quando vanno a scontare scenari molto differenti. se non alternativi. Anche stavolta l’obbligazionario vede la recessione in arrivo, mentre quello azionario non la vede, o, al massimo, crede in una soluzione indolore del problema, se si porrà.
Evidentemente qualcuno sta sbagliando e, nell’arco di qualche mese, dovrà scendere dalle quotazioni raggiunte.
L’unica cosa su cui entrambi, platealmente, concordano è che la FED taglierà presto ed aggressivamente i tassi. Questo giustifica il movimento di breve periodo al rialzo per entrambi i mercati. E’ segno che sentono di avere Powell in pugno.
Su questo, probabilmente, non sbagliano, perché il personaggio sembra non avere la statura necessaria per contrastarli, anche perché in questo braccio di ferro con Powell i mercati possono contare sull’incessante lavoro ai fianchi operato dall’alleato Trump, il santo protettore della speculazione rialzista.
Certo che se la FED, contrariamente a tutte le aspettative, decidesse di resistere e non assecondare le tante chiamate al taglio dei tassi, la sorpresa sarebbe assai poco gradita e causerebbe il capitombolo di entrambi i mercati.
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