E’ assolutamente demenziale pensare che scatenare una feroce guerra contro i colossi tecnologici cinesi non abbia conseguenze sul business dell’analogo settore americano.
La globalizzazione, che proprio nella tecnologia ha avuto il suo massimo sviluppo, piaccia o meno (a me non piace moltissimo), ha creato un intreccio inestricabile tra le imprese guida del settore ed un impatto sconvolgente sulla vita quotidiana delle popolazioni dei paesi sviluppati.
Per questo non ci voleva il premio Nobel per l’economia per comprendere che il macete brandito da Trump, quando ha inserito un po’ di società cinesi, tra cui il gigante Huawei, nella black list delle imprese soggette, per motivi di sicurezza nazionale, a forti restrizioni nei rapporti con le imprese americane, avrebbe colpito anche i bilanci delle imprese americane e complicato la vita dei consumatori (ed elettori) USA.
Eppure l’unico a non saperlo sembrava essere lui, che in questo modo credeva di punire gratis i cinesi per costringerli a miti consigli ed a riprendere le trattative in condizione di inferiorità.
Ma è bastato il dolore dei primi bernoccoli provocati sulla testa delle imprese tecnologiche USA dal boomerang che Donald ha incautamente lanciato, per fargli subito capire che forse aveva un po’ esagerato. Anche perché i cinesi non hanno battuto ciglio ed hanno ribadito che Huawei è pronta alla guerra e a lanciare il suo sistema operativo alternativo ad Android. Inoltre il leader cinese Xi Jinping ha incontrato i capi delle aziende cinesi che producono componenti che utilizzano le “terre rare”, da cui dipendono molte produzioni tecnologiche americane. In questo modo ha lanciato, senza la minima dichiarazione, il messaggio agli USA che la Cina ha potenti mezzi di ritorsione, che potrebbe utilizzare al bisogno.
Sta di fatto che appena emanato l’ordine esecutivo, l’Amministrazione USA ha subito dovuto mettere la retromarcia, sospendendone gli effetti per tre mesi, fino al 19 agosto. Ufficialmente è per non danneggiare gli utenti americani dei prodotti Huawei già sul mercato, ma la mia impressione è che i suoi consiglieri siano finalmente riusciti a catturare la sua attenzione e gli abbiano fatto vedere che il piatto della bilancia dei vantaggi sembra più leggero di quello degli svantaggi, per l’America e per i suo tornaconto elettorale.
La notizia della sospensione del decreto ha subito fatto tirare un sospiro di sollievo ai mercati azionari. SP500 e il nostro Ftse-Mib hanno recuperato praticamente tutto quel che avevano perso lunedì. Nasdaq100, Eurostoxx50 e Dax un po’ meno. Ma tutti i mercati hanno tentato il rimbalzo dai minimi di lunedì.
Ora la situazione si fa intricata ed esposta al tiramolla mediatico di dichiarazioni, voci, supposizioni su quali saranno le prossime mosse.
Non è un momento facile da interpretare. Forse ha senso rimanere un po’ alla finestra per verificare che umore prevarrà sui mercati.
D’altra parte SP500 qualche chiave di lettura dei movimenti futuri ce l’ha fornita.
Le aree da monitorare sono quella nei pressi di 2.890 punti e quella intorno a 2.800.
Il superamento rialzista convinto di 2.890 avverrà a fronte di significativi e positivi cambiamenti nella guerra commerciale e porrà le condizioni per tornare sui massimi del primo maggio (2.954), cancellando la correzione in atto. Viceversa lo sfondamento al ribasso di 2.800, magari dovuto all’avvitamento della situazione geopolitica, produrrà una probabile accelerazione ribassista verso il primo obiettivo di 2.775 e poi verso l’area 2.720.
In attesa che SP500 faccia le sue mosse l’Europa avrà tempo per svolgere le sue elezioni per il Parlamento Europeo, che solo pochi mesi fa minacciavano di essere il giorno dell’Apocalisse per l’Unione, con il Parlamento probabilmente espugnato dai sovranisti. Ma molta acqua è passata sotto i ponti, e molta ha esondato, in questa primavera dal meteo impazzito. Al punto che ora ad un successo sovranista in ambito europeo non crede più nessuno, e se avvenisse sarebbe francamente molto sorprendente. Forse in Italia potrà gongolare Salvini, ma solo perché l’asse del governo italiano si sposterà ufficialmente a suo favore. Il dubbio nel nostro paese è sulla dimensione del successo salviniano. Sopra il 32-34% dei voti il futuro del governo verrà messo in discussione, e Salvini potrà pensare di scommettere su elezioni anticipate per raggiungere, in coalizione col partito della Meloni, il fatidico 40% che gli darebbe la maggioranza assoluta senza bisogno di fare contratti con nessuno. Se invece, come io penso (ma non sono un indovino), il suo successo sarà importante, ma non eclatante, al punto da non superare il 30% dei voti, tutte le liti tra Salvini e Di Maio, che da mesi quotidianamente occupano i giornali, verranno istantaneamente dimenticate e si tornerà al menage da innamoratini di un anno fa, alle liti con l’Europa sui conti sfasciati ed al ballo dello spread.
Non resta che attendere.
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