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IL RISCHIO C'E' ...E ORA SI VEDE
05/02/2018 08:41

Abbiamo descritto per mesi la compressione di volatilità e l’assoluta mancanza di percezione del rischio che i mercati azionari USA hanno voluto mostrarci con la realizzazione di decine di nuovi massimi storici su tutti i principali  indici di Wall Street, cullandosi nella speranza che il taglio delle tasse (unico vero provvedimento che Trump possa vantare nel primo anno di mandato) garantisse la crescita senza fine dei PIL e degli utili societari.

Oggi ci troviamo a commentare quel che era inevitabile che prima o poi accadesse, e che è stato rinviato per troppo tempo dall’avidità delle mani forti dei mercati, con la complicità delle banche centrali: il ritorno sulla terra dopo una lunga vacanza del cervello tra le nuvole.

Perché la debacle azionaria di venerdì scorso ha fornito prove evidenti che quella in atto, partita di soppiatto ad inizio settimana, possa diventare la prima correzione degna di questo nome dell’era Trump.

Se vogliamo utilizzare la definizione di correzione che va per la maggiore negli ambienti finanziari, cioè un calo dell’indice (noi guardiamo il più rappresentativo, SP500) di almeno il 5% da un massimo realizzato, notiamo che l’ultima volta che questo evento è capitato c’era ancora al potere Obama ed eravamo nell’estate del 2016. L’arrivo di Trump ha rimosso questo tipo di eventi dalla scena borsistica, consentendo un calo massimo del’indice SP500 del -3,3% nel periodo da marzo a metà aprile dello scorso anno.

Tutto ciò era vero fino alla quarta settimana di gennaio, conclusa in gloria come le 3 precedenti, con la realizzazione del massimo storico a 2.872,87 punti.

Ma improvvisamente, e, almeno all’inizio senza apparenti motivi, la settimana scorsa, che ha traghettato i mercati dentro il mese di febbraio, l’incantesimo si è rotto e in 5 sedute di borsa l’indice SP500 ha perso il -3,93%, che è il record negativo dell’era Trump e potrebbe portarci, se farà ancora poco più dell’1% di ribasso, la prima vera correzione canonica dopo un anno e mezzo di cavalcata rialzista a perdifiato.

Il segno lasciato dalle unghie dell’orso sul dorso del toro è già evidente. La settimana scorsa il calo si è rimangiato il rialzo di quasi 3 delle precedenti settimane del 2018 ed ha percorso a ritroso oltre la metà della corsa del 2018.

Anche la volatilità espressa ha subito un’impennata, portando l’indice Vix, che misura appunto la paura di ribasso che il mercato sconta sulle opzioni su SP500, dal valore di 11,08 a cui è iniziata la settimana, ad arrampicarsi fino a 17,31, realizzato alla chiusura di venerdì sera.

Il contagio si è diffuso dall’America alle altre borse mondiali. Quelle asiatiche con un po’ di ritardo, ma stamane sembrano anch’esse volersi allineare al nuovo vento gelido proveniente dall’Atlantico. Quelle europee lo hanno addirittura anticipato. In Europa il cucchiaio di legno delle performance negative va all’indice tedesco Dax, che di settimane negative ne ha fatte due e venerdì è riuscito a scendere in negativo nella performance del 2018, mangiandosi tutto quel che nella prima parte aveva accumulato grazie al traino americano ed alle speranze di rapida soluzione delle difficoltà politiche a formare un nuovo governo di coalizione in Germania. Anche Eurstoxx50 non ha affatto brillato, con una settimana da -3,4%, massimo calo settimanale dall’ottobre 2016. Il nostro Ftse-Mib ha avuto una discreta tenuta, fino allo sbracamento di venerdì. Rimane con una performance da inizio anno decisamente positiva ed il calo dai massimi si è fermato a circa un terzo della strada fatta al rialzo in questo 2018.

La sua forza relativa verrà comunque messa a dura prova nei prossimi giorni, poiché è ipotizzabile che, quando cambia il vento, le prese di beneficio degli investitori internazionali si intensifichino proprio sulle posizioni che guadagnano di più.

Come ho scritto, il calo all’inizio della settimana era motivato solo dalla stanchezza dei compratori e dagli enormi eccessi rialzisti realizzati nel mese di gennaio. Ma a fine settimana è giunto qualche motivo di sostanza a rendere non solo emotivo il movimento ribassista in corso.

Già abbiamo notato che tutta questa crescita del PIL USA la vede solo Trump. La stima advance del PIL USA ci ha mostrato un ritmo di crescita tornato ben sotto il 3% annuo.

Quel che di nuovo ha attirato l’attenzione dei mercari è l’inflazione che rialza la testa, almeno in USA. Già il dato dei prezzi al consumo è arrivato all’obiettivo della FED. L’indice dei prezzi al consumo senza tante rettifiche è al 2,1%, superiore al target FED. Venerdì scorso poi è stato comunicato che il costo del lavoro sta crescendo al tasso annualizzato del 2,9%. Mettiamoci insieme il prezzo del petrolio, che da inizio 2017 è cresciuto di circa il 20%. Ed infine aggiungiamo il fatto che il calo del dollaro ha importato inflazione, rendendo più care le merci provenienti dal’estero. Tirando le somme non deve stupire se il mercato comincia a temere che  tutte queste pressioni sui prezzi si possano trasformare in una fiammata inflazionistica, che costringerebbe la FED ad inseguire l’inflazione con politiche monetarie assai più restrittive di oggi.

Tra le gole profonde dei membri FED cominciano ad arrivare opinioni che forse i rialzi dei tassi che la banca centrale USA farà quest’anno potrebbero essere anche 4, anziché i 3 finora annunciati.

In ogni caso il mercato obbligazionario mostra di temere l’inflazione. I rendimenti sui Treasury americani decennali sono al 2,87%, quelli sul biennale in un anno sono ormai raddoppiati e risultano al 2,14%. Anche in Europa si comincia a temere l’inflazione, con il Bund decennale tedesco che continua a salire di rendimento ed è arrivato a 0,77%.

Del resto Trump, che su Twitter si sta dando parecchio daffare a litigare con tutti, ed ora anche con il suo Dipartimento di Giustizia, è sempre piuttosto silenzioso in tema di coperture finanziarie e non ci dice nulla su come intende pagare i regali fiscali ed il piano infrastrutture da 1.500 miliardi, che ha già annunciato.

Comincia ad esserci un po’ più gente che in passato che vede troppi soldi spesi a debito e teme che porteranno l’inflazione. O che, se i repubblicani non vorranno abbandonare le loro convinzioni sul ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia, in qualche modo cercheranno di disfarsi di Trump, che, prima di cedere, lascerà terra bruciata.

E nessuna di  queste ipotesi serve a tranquillizzare le borse.

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Pierluigi Gerbino - P. Iva 02806030041
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