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Il progresso e' nemico della crescita?
19/06/2017 08:34

Coloro che hanno cercato lumi nelle parole delle due principali banche centrali al mondo per immaginare gli scenari che ci aspettano nell’economia mondiale, debbono probabilmente ammettere di avere oggi le idee meno chiare che in precedenza.

I messaggi comunicati ai mercati prima dalla BCE una decina di giorni fa e poi la scorsa settimana dalla Federal Reserve USA, sono stati piuttosto contradditori. Se le mettiamo di fronte, le proiezioni economiche e le parole dei Presidenti di queste due istituzioni hanno descritto due mondi completamente opposti. Draghi ha magnificato l’accelerazione congiunturale dell’Eurozona, che un paio di trimestri ha superato gli USA nel tasso di crescita trimestrale del PIL e sembra ancora voler accelerare, mentre Yellen ha dovuto prendere atto che la crescita USA sta segnando il passo. Ma riguardo alle prospettive future l’atteggiamento dei due timonieri si è ribaltato. Draghi ha manifestato molta cautela sul futuro, affermando che il sostegno monetario in Eurozona è ancora necessario e senza questo la crescita non sarebbe così sostenuta. Invece la signora Yellen ha ribadito la sua fiducia che la crescita USA si irrobustirà nuovamente nei prossimi trimestri e non necessita più di alcun aiuto monetario. Anche la visione sull’andamento futuro dell’inflazione è opposta, sebbene la realtà congiunturale stia mostrando dalle due parti dell’Atlantico un analogo rallentamento del ritmo di crescita dei prezzi, che ha nuovamente allontanato il tasso corrente di inflazione dall’obiettivo delle due banche centrali. Ma, se Draghi è scettico sulle possibilità di accelerazione dei prezzi nel prossimo futuro, la Yellen ha invece affermato che le pressioni inflazionistiche riprenderanno presto vigore.

Pertanto le due politiche monetarie si stanno facendo sempre più divergenti. La BCE continua a non aver fretta di rimuovere l’ampio stimolo monetario e vuole continuare a pompare almeno fino a fine anno altra liquidità nel sistema attraverso il QE, su cui non ha rimosso il “caveat” che potrebbe addirittura essere esteso oltre la fine dell’anno “se necessario”.

La FED invece accelera il suo passo verso la normalizzazione dei tassi, alzando di un quarto di punto i tassi ufficiali di interesse (arrivati ora a 1,25%) e confermando il processo di restrizione monetaria che dovrebbe portare i tassi al 3% entro il 2019, mentre annuncia che presto avrà inizio anche il ridimensionamento della montagna di obbligazioni presenti nel suo attivo di bilancio, risultato di 3 potenti manovre di QE attuate negli anni passati.

Risulta perciò evidente che le visioni e le intenzioni delle due banche centrali divergono oggi assai più che in passato. La conseguenza logica, se i mercati avessero la medesima visione delle due banche centrali, dovrebbe essere un rafforzamento del dollaro sull’euro; un rialzo dei rendimenti in USA assai più significativo che in Europa, dove, a rigore, dovrebbe perdurare la stabilità; un progressivo sgonfiamento delle quotazioni azionarie  in USA e nei paesi emergenti, accompagnato da un flusso di liquidità più intenso sull’azionario europeo.

Ma in questi giorni questo schema appena delineato si sta realizzando solo in minima parte.

Infatti i rendimenti obbligazionari vedono solo un modesto incremento sulla parte breve della curva americana dei rendimenti, che ha dovuto recepire almeno in parte il rialzo della FED, che però è stato del tutto ignorato dai rendimenti di medio-lungo periodo, che continuano a scendere, impressionati più dalla battuta d’arresto dell’inflazione che dalla fiducia della signora Yellen.

Rendimenti in discesa anche in Eurozona, in particolare nella periferia, con corollario di un deciso ridimensionamento degli Spread col Bund tedesco.

Come interpretare questo movimento? A mio parere significa che il mercato crede a Draghi e non crede a Yellen, o, perlomeno, sente che da parte della FED c’è l’intenzione di mantenere la barra dritta anche se dall’economia non arrivano le risposte che la stessa FED aveva previsto e continua testardamente a prevedere. Insomma il mercato obbligazionario sembra aver abbandonato le speranze che l’effetto Trump porti a significativi rafforzamenti della crescita. Sembrano molto lontani i tempi successivi all’elezione di Trump, quando le prospettive di spese allegre ed alleggerimenti fiscali facevano pensare a crescita in rafforzamento ed imminenti pressioni inflazionistiche. Ora Trump è in affanno ed intento a salvarsi dall’inchiesta sul Russiagate, che sta stringendo il cerchio attorno a lui. Le sue promesse economiche sono la prima vittima di queste inchieste e Wall Street comincia a dubitare che mai verranno onorate. Sembra invece preoccuparsi dei segnali di rallentamento, di cui i prezzi che si sgonfiano nuovamente è il principale. Il rallentamento dell’inflazione è provocato in buona parte dal prezzo del petrolio che continua ad afflosciarsi, nonostante i tagli produttivi OPEC, che sembrano più che compensati dalla continua apertura di nuovi pozzi di shale-oil in USA. Ma anche dall’insufficiente dinamica salariale, con le buste paga che non aumentano, nonostante la disoccupazione sia a livelli che in passato scatenava feroci rincorse a strapparsi i lavoratori a suon di aumenti salariali. Cosa che ora non si vede più. Anzi, i posti di lavoro creati in quest’ultima fase di ripresa economica americana sono di livello sempre più scadente e mal pagato. Quote di PIL sempre maggiori finiscono nelle poche e voraci mani dei super-ricchi possessori del capitale dei colossi della tecnologia, e le disuguaglianze economiche crescono, anziché ridursi, come sempre accadeva in passato nelle fasi di ripresa economica, quando la maggior occupazione e la crescita dei salari ridistribuiva i profitti a vantaggio dei redditi da lavoro.

Ora capita l’inverso. La continua sostituzione di lavoratori con i robot, che è già iniziata da tempo e tutti vedono in forte intensificazione in futuro, ridistribuisce i frutti della crescita e della produttività a favore delle poche mani che possiedono il capitale, distruggendo milioni di posti di lavoro, assai più di quelli che creano. Pochi fortunati capitalisti, alla guida delle big company tecnologiche moltiplicano la loro ricchezza mentre distruggono l’esistenza di lavoratori, che vedono sparire la loro professionalità, svolta meglio e più in fretta da macchine che non prendono lo stipendio.

E’ emblematico quel che è successo proprio venerdì e riguarda il gigante Amazon, il colosso delle vendite online, che occupa 340.000 dipendenti ed ha già distrutto milioni di posti di lavoro nel commercio tradizionale, spiazzato dal successo dell’e-commerce, l’acquisto tramite internet. Su Amazon si compra tutto. Se avete in mente qualcosa e non sapete dove trovarlo, su Amazon c’è. Basta ordinarlo con internet, pagarlo con carta di credito e dopo 2-3 giorni arriva a casa. La distribuzione commerciale sta vivendo la seconda rivoluzione epocale. La prima è avvenuta nei tre decenni passati. E’ stata l’affermazione della grande distribuzione, i super e poi iper mercati, i giganteschi centri commerciali diventati il tempio moderno in cui trascorrere il week-end, dove con un unico spostamento si torna a casa con tutto il necessario per la settimana successiva.

Ora si vive la seconda svolta. Il commercio elettronico, di cui Amazon è quasi monopolista, sta attaccando anche la grande distribuzione, che vive momenti di crisi sempre più conclamata, perché la quota di acquisti online cresce sempre più e la moda sta cambiando: i più dinamici “pesci pilota” non si spostano più in pellegrinaggio nei centri commerciali, ma si collegano dai social network e compilano la lista della spesa, che gli viene recapitata a casa. Questo modello si è già imposto in larga misura su molte categorie di prodotti e servizi commerciali. Si riteneva che fosse difficile che si imponesse su altre, come gli alimentari freschi o le automobili. Invece Amazon sta attaccando ed attecchendo anche lì. E’ di qualche mese l’annuncio di aver allargato l’offerta online anche alle automobili. Venerdì Amazon ha fatto un passo decisivo anche nella vendita di alimentari freschi, acquisendo cash per 13 miliardi di dollari (spiccioli per la liquidità di cui dispone) Whole Foods Market la più grande catena di supermercati bio al mondo, con l’idea di farli diventare un enorme magazzino senza casse e dipendenti. Si entra, si compra e si paga tutto automaticamente. Bello, facile, veloce. Il lavoro che un tempo facevano i dipendenti per “servire” i clienti verrà fatto in parte dai clienti stessi (magnifico, sono riusciti ad inventare il metodo per convincere il cliente a servirsi da solo e pagare per poterlo fare) ed in parte dalle macchine. Probabilmente i prezzi scenderanno e la concorrenza tradizionale verrà in poco tempo spazzata via, se non si adatterà al nuovo modello. Non c’è quindi da stupirsi che la notizia, appena venerdì è stata comunicata, oltre a far schizzare in alto le quotazioni di Whole Foods, ha provocato il crollo dei titoli della grande distribuzione tradizionale, già in crisi e che ora avrà un motivo in più di preoccupazione.

Ma non è tutto, perché Amazon, ma anche Paypal, Apple, Google, si occupano anche di pagamenti digitali e di prestiti alla clientela, facendo concorrenza al sistema bancario, dimostrando di voler mettere le mani su tutta la “filiera” del consumo. E pagando assai poche tasse, perché riescono a localizzare le sedi legali nei paradisi fiscali e sfruttarli per ingigantire i profitti netti.

Insomma. Colossi come i 5 che sono stati battezzati con l’acronimo FAANG, cioè Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google, sono diventati potenti come stati. Forse molto più potenti di stati anche di prima grandezza. E la loro caratteristica è quella di distruggere posti di lavoro, in cambio della riduzione dei prezzi dei servizi, che possono attuare perché al posto delle persone fanno lavorare le macchine, che non prendono lo stipendio, non si stancano, e soprattutto non si lamentano mai.

L’impatto deflazionistico della tecnologia è colossale. Ecco perché la montagna di dollari e di euro che è stata creata in questi anni non è riuscita a creare inflazione. Perché non è arrivata alle tasche della popolazione ma si è fermata in gran parte in quelle degli azionisti di queste big company.

E’ in corso una colossale redistribuzione di reddito a vantaggio dei ricchi. Ma gli effetti di questa corsa sono deflazionistici per l’economia reale e creatori di bolle speculative sui mercati azionari, che infatti non riescono nemmeno a stornare in modo significativo, dopo una corsa che dura da oltre 8 anni. E’ un tornado speculativo che prima o poi causerà danni, ma che per ora nessuno pare preoccupato di regolamentare. Forse perché incapace, o perché connivente.

I pochi che sembrano coscienti del pericolo, come la signora Yellen, che cerca con cautela di irrigidire le condizioni monetarie per calmare i bollenti spiriti, vengono snobbati.

Stiamo a vedere quanto durerà lo scollamento tra i problemi che intravedono gli investitori sull’obbligazionario e i radiosi destini su cui scommettono gli investitori sull’azionario.

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