Yellen rassicura piu' l'Europa che gli USA
28/09/2015 08:41
Il dato definitivo che venerdì è uscito sul PIL americano del secondo trimestre, che ha visto un ulteriore ritocco al rialzo, fino al +3,9% annualizzato, ha addolcito ulteriormente, per i mercati europei, le caramelle elargite dalle parole che Yellen ha pronunciato giovedì notte, quando ha ribadito le sue convinzioni sulla robustezza della ripresa americana, che permetteranno il rialzo dei tassi entro fine anno.
L’ultimo mese, con lo spavento provocato dalle incertezze cinesi e l’arretramento della borsa di Shanghai, e l’ultima settimana, con il “dieselgate”, che ha portato un crollo di prospettive per il settore automobilistico europeo e quello, non meno grave, dell’immagine tedesca agli occhi del mondo, hanno ribaltato completamente la chiave di lettura delle borse mondiali rispetto a quella utilizzata fino agli inizi di agosto.
Per molti mesi e fino a luglio lo scenario che scontavano i mercati era quello di una crescita mondiale che quest’anno faticava a tenere il ritmo, ma che era tuttavia orientata ad intensificarsi dal prossimo anno. Questo scenario poteva essere minacciata dalle conseguenze di un avventato rialzo dei tassi americani, che rafforzasse ulteriormente il dollaro e, mediante il ritorno in USA di capitali in cerca di rendimento, invertisse la direzione dei flussi che fino a quel momento avevano copiosamente finanziato i BRICS e gli altri paesi ad alta crescita. Si vedeva il pericolo che il progressivo cambiamento della politica monetaria americana, avviata verso la “normalizzazione” dei tassi ufficiali su livelli un po’ più alti dello zero per cento che è in vigore da sette anni, potesse rallentare l’andatura della locomotiva americana ed ancor più quella del resto dell’economia mondiale.
In piena estate ci si è trovati invece di fronte ad un improvviso, e precedentemente sottovalutato, shock di origine cinese. Si è dovuto prendere atto che in realtà il rallentamento nei paesi emergenti era già in atto da tempo e ad esacerbarlo ci aveva pensato la Cina, abbassando sempre più i suoi livelli produttivi e con essi la domanda mondiale di materie prime. Ad agosto la difficoltà a contenere il crollo della borsa, seguito allo scoppio della bolla speculativa sull’azionario cinese, e il deteriorasi ulteriore della produzione ha causato una scenata isterica da parte del governo cinese, che ha scatenato la guerra valutaria mediante una svalutazione del yuan. Il domino della globalizzazione finanziaria ha immediatamente condotto parecchi altri paesi emergenti ad attuare anch’essi svalutazioni competitive e l’ulteriore crollo dei prezzi delle materie prime ha accelerato la fuga di capitali dai paesi emergenti verso i meno remunerativi, ma più tranquilli, lidi americani ed europei, anticipando scenari di forte rallentamento dell’economia mondiale ben prima che gli USA alzassero i tassi.
E’ stato in quel momento che le banche centrali europea ed americana hanno ammesso che la situazione era effettivamente preoccupante e che avrebbero agito di conseguenza: Draghi promise persino l’estensione dei tempi, delle quantità e della composizione del programma di Quantitative Easing della BCE, quando fosse necessario; la FED rinviò il rialzo dei tassi che precedentemente aveva indotto a credere che sarebbe stato attuato a settembre.
Il messaggio ai mercati voleva essere rassicurante, ma forse i banchieri centrali, che sono sempre un po’ restii a giocare d’anticipo e preferiscono in genere vedere gli ostacoli solo quando ci sbattono la faccia contro, hanno finito per preoccupare ancor più i mercati, inducendoli ad incorporare nei prezzi una maggior dose di rischio recessione.
In questa situazione si è poi infilato anche il “dieselgate” a fornire una componente aggiuntiva di rischio in un settore che finora era stato trainante per la ripresina europea.
La chiave di lettura delle parole e delle decisioni FED si è pertanto completamente ribaltata. Se la FED resta accomodante i mercati si spaventano, perché vedono rischi di recessione in aumento, al punto da frenare le banche centrali. Se invece la FED mostra volontà di alzare i tassi, i mercati vengono rassicurati che la situazione è sotto il controllo dei banchieri centrali.
L’interpretazione delle parole e delle azioni delle banche centrali principali è pertanto esattamente opposta rispetto al recente passato.
Tutto ciò spiega perché venerdì in Europa sono tornati gli acquisti. Le parole di nonna Yellen hanno rassicurato un po’ gli investitori che, dopo aver preso atto che il Dax aveva addirittura superato i minimi di agosto (ma non il future, fermatosi leggermente al di sopra) ed Eurostoxx50 vi si era appoggiato, sono ricomparsi in acquisto. A loro si sono aggiunti i ribassisti che hanno deciso di chiudere gli short ed intascare i guadagni, accontentandosi della gamba ribassista attuata nella seconda metà di settembre. Come spesso accade ai rimbalzi in un mercato fortemente ribassista, il recupero è stato notevole, mediamente intorno ai 3 punti percentuali nelle principali borse europee e intorno al +1% sull’indice SP500. In USA, però, dopo la chiusura dei mercati europei, si è tornati a scendere, restituendo tutto il guadagno iniziale. Se guardiamo al grafico settimanale, l’ottimismo europeo di venerdì si stempera in una performance settimanale comunque negativa, più o meno come quella americana.
La settimana che si apre oggi vedrà un inizio piuttosto incerto per le borse europee, chiamate in apertura a prendere atto del dietrofront americano di venerdì, ancora non scontato, della debolezza giapponese, il cui indice è nuovamente vicino ai minimi di inizio settembre, dopo che venerdì i dati hanno mostrato una nuova caduta in deflazione e che la Abenomics non riesce a raggiungere i suoi obiettivi.
Soprattutto le borse europee dovranno fare i conti con l’esito delle elezioni regionali spagnole, che in Catalogna hanno visto vincere gli indipendentisti, ma senza la maggioranza assoluta. Si apre una fase piuttosto concitata per il futuro della Spagna e anche dell’Unione Europea.