Settimana a due facce per i mercati azionari, con un andamento riflessivo iniziale e recupero finale, che ha riportato i valori più o meno sui livelli della settimana precedente. Il recupero dei mercati di venerdì va considerato soprattuto come rimbalzo tecnico, dal momento che i principali indicatori di analisi tecnica rivelavano nel breve periodo una situazione di eccesso ribassista e gli indici principali avevano raggiunto livelli di supporto di una certa importanza. Non c’è quindi tecnicamente da stupirsi se il dato deludente sulla creazione di posti di lavoro, che ha giustamente penalizzato il dollaro, non ha minimamente impedito il recupero di Wall Street. I quotidiani si sono sforzati di trovare la quadratura del cerchio sostenendo che le borse sono salite perché il dato debole del mercato del lavoro prolungherà la pazienza di Greenspan sul fronte del rialzo dei tassi. Insomma: tanto peggio, tanto meglio.
Personalmente guardo sempre con scetticismo questi esercizi interpretativi, così come non mi lascio troppo influenzare dalle letture che i giornali stanno dando dell’accordo raggiunto a Boca Raton dai 7 grandi sul tema della eccessiva fluttuazione del dollaro. In realtà mi sembra che l’accordo abbia riguardato non la sostanza ma la stesura di un comunicato che riuscisse a bilanciare le diverse posizioni sul tappeto, che sono rimaste quelle iniziali. Gli USA non ne vogliono sapere di fermare la discesa del dollaro, perché fa troppo comodo alle necessità elettorali di Bush che deve rafforzare la crescita economica USA entro novembre. Gli europei vorrebbero un periodo di stabilità perché stanno pagando loro la campagna elettorale di Bush (circolano stime che parlano di una perdita di 2 punti percentuali di crescita economica per l’area euro in caso di ulteriore svalutazione dl dollaro del 10%). I giapponesi non vogliono privarsi della possibilità di intervenire sul mercato per pilotare ed ammorbidire la rivalutazione della loro moneta, e non ci stanno ad essere loro a pagare il conto.
Se queste posizioni rispecchiano un accordo, allora cambio mestiere.
Il comunicato chiede diplomaticamente ai mercati valutari di seguire i fondamentali delle varie economie, evitando eccessi.
Il problema è che però nessuno stabilisce quali debbano essere i fondamentali da seguire e se si debbano applicare a tutti.
Se per “fondamentali economici” intendiamo la crescita del PIL, non c’è dubbio che gli USA sono molto più forti di Eurolandia. Pertanto il dollaro sarebbe sottovalutato senza motivo.
Proviamo però a prendere in considerazione anche qualche altro fattore, come in genere fa chiunque debba valutare l’affidabilità di un debitore, ed applichiamo queste regole anche alla superpotenza americana, così come in genere si fa nei confronti degli altri paesi (Italia, Argentina, Turchia, o chi vi pare).
Di solito per valutare il rischio paese si guarda più o meno a quel che si guarderebbe per prestare soldi a chiunque. Pertanto sono elementi da valutare: l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, il debito estero, il deficit del bilancio statale, l’inflazione, la capacità di crescita autosufficiente, cioè il risparmio. Queste regole vengono generalmente applicate ad ogni paese, tranne agli Stati Uniti, poiché storicamente la valuta americana, il re dollaro, è da molto tempo utilizzato come valuta di riserva da tutti e come principale mezzo di transazione. Questo fatto, tra l’altro, spiega il motivo per cui gli americani possono tranquillamente permettersi di lasciarlo deprezzare senza subire che trascurabili effetti inflazionistici, mentre tutti gli altri paesi quando le loro monete si svalutano subiscono ben altri e più costosi effetti in termini di inflazione importata.
Il fatto nuovo di questo millennio appena iniziato è che il dominio di re dollaro come valuta mondiale di riferimento, sta cominciando ad essere messo timidamente in discussione dall’avvento dell’Euro, che, dopo un periodo di incertezza iniziale potenziato dallo snobismo con cui gli USA hanno sempre guardato alla moneta europea, sta lentamente diventando una divisa sempre più utilizzata negli scambi e detenuta come riserva ufficiale da molti paesi in misura ormai non più trascurabile.
E’ certamente presto per ipotizzare che l’euro scalzi dal trono il re dollaro. Probabilmente il futuro più remoto riserverà importanza crescente alle monete di altre grandi economie emergenti, come la Cina e l’India, che si affiancheranno al dollaro, all’euro ed allo yen, in un sistema multipolare. Quel che credo sia ormai quasi certo è che il sistema vigente fino ad ora, una specie di dollar standard, è destinato a scomparire.
In tal caso all’America non potrà più essere concesso alcun trattamento privilegiato, perché la sua pagella non potrà più contenere voti politici, ma dovrà essere stilata applicando i criteri che si applicano a tutti.
E non c’è dubbio che se si vanno a verificare le materie che ho indicato sopra, oltre alla sola crescita economica, gli USA appaiono assai meno potenti e le insufficienze abbondano. Ecco perché a chi si stupisce di vedere il dollaro scendere, viene da rispondere che ha ragione, secondo i criteri di giudizio del passato. Assai meno se comincia ad applicare quelli del presente ed ha forse torto marcio se applica quelli del futuro.
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